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Racconti d'Estate

“Racconti d’Estate”: la prima parte del racconto “Questione di corna” di Giuseppe Graceffa

foto giusepppe GraceffaRacconti d’Estate“, la nuova rubrica settimanale di Scrivo Libero, che per questa stagione estiva vuole allietare i nostri lettori con alcuni racconti dello scrittore aragonese, Giuseppe Graceffa (in foto), un autore poliedrico che predilige spaziare con disinvoltura tra generi letterari diversi, dal realismo alla fantascienza, nonché tra stili di scrittura differenti, dal romanzo al racconto, dalle sceneggiature ai saggi.

Finalista in diversi concorsi letterari, ha pubblicato un saggio cinematografico sulla trilogia di Matrix e un romanzo fantasy dal titolo “Il Sigillo di Khor” edito dal gruppo editoriale Twins Edizioni & David And Matthaus, disponibile in libreria o al seguente link.

Dopo il successo di “Grano Duro”, “Dottore Licata” e “La Truscia”, oggi la prima parte del racconto “Questione di corna“:

QUESTIONE DI CORNA
PARTE PRIMA

Il sole picchiava maledettamente in quella luminosa giornata di primavera. Le campagne siciliane che si snodavano ai margini della strada erano di un verde abbagliante anche se già qualche macchia di giallo cominciava a fare la sua comparsa tra la distesa verde e presto avrebbe del tutto sostituito il colore che ancora era predominante, mischiandosi con il giallo tipico delle colture estive. Il treno sfrecciava veloce tra quegli ammassi di colori scintillanti anche se al suo interno il calore dovuto ai raggi solari che si abbattevano sulla carrozza deserta come un esercito furioso e sbavante si avventa sul nemico ferito, rendevano difficoltosa l’abitabilità all’unico occupante dello scompartimento.
Antonio guardò più volte fuori indeciso se aprire o meno il finestrino per lasciare entrare aria fresca che avrebbe alleviato la sua sofferenza. Era però sempre stato restio a farlo perchè non sopportava l’aria in faccia e il sordo rumore del treno, se non quando il caldo estivo diventava insopportabile. Ma non era ancora estate e il sole non aveva raggiunto il culmine della sua forza come accadeva nei mesi estivi. Cercò allora di trovare un pò di sollievo allentando il nodo della cravatta e sbottonando il colletto della camicia ma, dopo un breve attimo in cui il respiro sembrò nuovamente riprendere a fluire regolarmente, l’afa che lo attanagliava si strinse nuovamente attorno alla sua gola. A quel punto restava una sola cosa da fare e quindi, incurante degli ammonimenti del suo maestro che raccomandava sempre ai suoi giornalisti di non restare mai in manica di camicia, si tolse la giacca con un gesto liberatorio. La piegò con cura per evitare che si sgualcisse troppo e la ripose sul sedile accanto al suo. Finalmente un senso di frescura e di leggerezza lo pervase e si rammaricò di non averlo fatto prima. In camicia si stava decisamente meglio e i pensieri riprendevano a scorrere liberamente non soffocati dal senso di oppressione che il caldo gli provocava.
Si accese una sigaretta appoggiando la testa allo schienale e con lo sguardo fisso all’esterno. Davanti a lui sfrecciò via veloce una collinetta ricoperta da erba verde e da qualche albero disseminato qua e là che sembrava far da contorno alla distesa di terra. Il sole rendeva l’erba quasi luminosa e l’aria cristallina permetteva di notare i dettagli di ogni singolo filo d’erba che si agitava elegantemente spinto da una leggera brezza.
Antonio si rilassò alla vista del paesaggio e quando spense la sigaretta nel portacenere incastonato nel bracciolo del sedile, era decisamente più rilassato. Guardò l’orologio e si accorse che tra poco sarebbe giunto in paese. Pensò che forse avrebbe dovuto acquistare un’automobile, magari una di quelle nuove cinquecento, che gli avrebbe permesso di muoversi più liberamente. Del resto ormai era diventato un giornalista affermato e ben pagato e quindi un’automobile sarebbe stata più consona al suo prestigio anzichè muoversi sempre con il treno o le corriere.
Mentre ancora vagava con il pensiero tra automobili e i relativi costi, cominciarono a spuntare le prime case del paese, mentre la sagoma vera e propria della cittadina si stagliava sulla collina antistante come la cupola di un grande fungo settembrino.
Il treno si fermò fischiando e cigolando fuorisamente proprio davanti alla scritta “Aragona Caldare” che faceva bella mostra di sé al centro della stazione. Scese dalla vettura con la giacca appoggiata sulle spalle e, dopo aver preso informazioni, si avviò all’esterno per prendere la corriera che portava in paese. Aspettò diversi minuti prima che la vettura arrivasse ma,alla fine giunse e fortunatamente era pressoché vuota per cui non ebbe problemi a trovare un posto a sedere.
In ogni caso ormai era in paese. Adesso si trattata di trovare la chiesa. Erano anni che non tornava da quelle parti e non sarebbe riuscito a trovare nemmeno l’uscita una volta entratovi.
Antonio si sforzò di focalizzare i pensieri su quello che doveva fare e quindi cercò un modo per trovare la chiesa. Sfortunatamente a quell’ora del giorno, nel primo pomeriggio, poca gente era per strada e nessuno a cui chiedere ma, a poca distanza, intravide un bar e decise che quello era un buon posto per chiedere informazioni. Entrò nel locale e si diresse al bancone mentre il barista si avvicinava lentamente. Sembrava quasi seccato dall’arrivo di quel forestiero e con fare indolente fece un semplice cenno del capo allo sconosciuto per chiedergli cosa volesse. Antonio ordinò un caffè e l’uomo continuando nel suo silenzio cominciò ad armeggiare con la macchina del caffè.
– sa dirmi dove si trova la Chiesa Madre? – chiese Antonio infastidito dal cocciuto silenzio dell’uomo
– anche lei va al funerale? – rispose il barista senza guardare Antonio ma con lo sguardo fisso sulla tazzina che si stava riempiendo
– si, se riesco a trovare la chiesa – rispose Antonio stizzito per l’ovvietà della domanda e soprattutto per la mancata risposta.
– è facile da raggiungere – continuò l’uomo che gli porse la tazzina davanti – questa è la strada principale del paese, la segua fino in fondo e troverà una piazza. La chiesa è sulla destra.
Antonio trasse dalla tasca delle monete, le porse al barista, lo ringraziò e si incamminò avviandosi verso la direzione che gli era stata indicata.
Durante il tragitto incrociò diverse persone che andavano nella sua stessa direzione, evidentemente ad assistere al funerale. Antonio entrò nella piazza dove era già riunita parecchia gente
Si accese una sigaretta e si avviò verso la chiesa il cui grande portone d’entrata era completamente aperto e davanti al quale molta gente aspettava in piedi. Si fece largo tra quella piccola folla e guardò l’interno della chiesa. Fortunatamente il funerale non era ancora cominciato anche se quasi tutti i posti a sedere erano pieni, tranne i primi banchi che invece erano vuoti.
Improvvisamente le campane della chiesa cominciarono a suonare. Colpi singoli, lenti, regolari che accompagnavano l’ingresso nella piazza della processione mortuaria. Dopo qualche istante, infatti, nel più assoluto silenzio interrotto solamente dal suono delle campane, fece il suo ingresso nella piazza il corteo che accompagnava il morto. In testa alla fila c’erano i membri di una confraternita, con le loro pettorine rosse sgualcite dall’incuria o dall’eccessivo uso, disposti su due file parallele e in atteggiamento di ossequioso silenzio meditativo. Uno di loro, davanti a tutti, portava una lunga asta a cui era fissato uno stendardo nero, con un simbolo dorato che probabilmente era quello della confraternita stessa ma che purtroppo era talmente sbiadito da essere quasi irriconoscibile. Erano una dozzina, tutti uomini e quasi tutti avanti con l’età tranne due ragazzi che però per modo di vestire, per portamento e per aspetto del volto sembravano quasi essere coetanei dei loro “colleghi” più anziani.
Dopo la confraternita veniva il feretro portato a spalla da sei uomini. Dietro la bara, subito dopo il feretro, stavano i parenti più stretti del morto. Una donna vestita di nero che indossava occhiali scuri e manteneva un portamento composto e il capo chino che era probabilmente la vedova, sorretta a braccetto da un uomo, anch’esso con occhiali scuri e che aveva l’atteggiamento di colui che deve dare forza e coraggio alla donna distrutta dal fato. Antonio chiese a un uomo che gli era a fianco chi fossero quelle persone ed ebbe la conferma che si trattava della giovane vedova e del fratello. Accanto a loro c’era un’altra coppia, leggermente più anziana, formata dalla sorella del defunto che continuava a piangere e singhiozzare e accanto a lei il marito che se ne stava invece eretto e con lo sguardo fisso davanti a se, quasi come un condannato a morte che si avvia con fierezza e determinazione verso il plotone di esecuzione, deciso a far vedere ai suoi carnefici tutta la dignità di cui è in possesso anche in un momento come quello.
Dietro ai parenti stretti veniva il resto del corteo funebre, composto da tutti coloro che per amicizia, parentela o semplice convenienza, avevano preferito recarsi presso l’abitazione del morto per rendere l’ultimo omaggio alla salma e ai familiari. Erano circa una cinquantina di persone che, compostamente e in silenzio, si mantenevano alle spalle dei congiunti, aumentando a accelerando il ritmo di marcia per stare sempre dietro alla bara e ai familiari.
Giunti davanti alla chiesa, il corteo si fermò mentre la piccola folla antistante il portone si apriva per lasciare spazio alle operazioni di ingresso della bara. il piccolo gruppo di sei uomini con il pesante involucro di legno sulle spalle si avviò lentamente all’interno della chiesa dove la cassa fu deposta davanti all’altare seguita dai congiunti e dai familiari più stretti del defunto che si accomodarono nei primi banchi, facendo in modo che nella fila di destra sedessero gli uomini, mentre in quella di sinistra prendessero posto le donne, tra cui la vedova e la sorella.
Antonio rimase all’esterno della chiesa confuso tra tutti coloro che, per motivi di spazio, o perché non avevano voglia di assistere alla funzione, erano rimasti fuori ad attendere la fine della messa, quando finalmente avrebbero potuto salutare e fare le condoglianze di persona ai parenti del morto.
Perché il morto non era una persona qualunque. Era Anselmo Butera, noto politico locale, giunto in pochi anni fino al governo della Sicilia di cui occupava un posto rilevante quale Assessore ai Lavori Pubblici, uno degli assessorati più importanti dell’esecutivo isolano. Un uomo ancora giovane, poco più di quarantacinque anni, che aveva avuto una folgorante carriera politica che lo aveva portato a ricoprire cariche di primo piano sia a livello locale che nazionale facendolo divenire uno dei principali punti di riferimento del suo partito, e che nel prossimo futuro sembrava destinato a crescere ancora fino ad arrivare, forse, ai vertici nazionali.
Un uomo a cui la vita stava dando molto: un ruolo di prestigio nella società, un elevato grado di potere, una splendida barca ancorata al porticciolo di Mondello, un eccellente conto in banca, una bella villa in campagna e una serie di case in paese e in città, tra cui un attico di prestigio a Roma. Tutti beni che Antonio aveva personalmente controllato essere appartenenti al Butera.
Più una splendida e giovane moglie che adesso sedeva severa in prima fila al suo funerale.
Un uomo fortunato, insomma, ma anche un uomo che solo tre giorni prima aveva deciso di togliersi la vita ingerendo una notevole quantità di veleno nella solitudine del suo studio di Palermo. Un suicidio giunto del tutto inaspettato e che aveva fatto parlare moltissimo l’opinione pubblica, incredula davanti a quel gesto estremo compiuto da una persona ritenuta vincente da tutti. Dopo un primo momento di comprensibile sgomento, infatti, la stampa si gettò sulla notizia, mediante approfondimenti con cui soddisfare la morbosa curiosità dei lettori, vogliosi di conoscere le motivazioni e i retroscena di questo spettacolare quanto macabro gesto.
Ed anche Antonio era stato incaricato dal suo giornale “la Voce della Sicilia” il più diffuso e importante quotidiano regionale, di seguire la vicenda e, possibilmente, approfondirla fino scovare le motivazioni che stavano dietro il suicidio di Butera. Aveva già scritto un paio di articoli al riguardo e, quel giorno, si era deciso ad andare ad assistere al funerale per capire quali erano gli umori e le sensazioni della gente, di quelle persone che lo avevano visto crescere, sia in termini di età che di carriera e che probabilmente lo conoscevano anche al di fuori del suo ruolo politico.
E quale posto migliore per carpire informazioni se non tra coloro che assistono al suo funerale? si era detto il giorno prima quando aveva deciso di venire fin quaggiù. Gli uomini infatti, dopo l’inizio della messa, avevano cominciato a discutere tra loro in gruppetti più o meno fitti, chiacchierando sui più disparati argomenti, evidentemente poco partecipi della funzione che si stava celebrando a pochi metri da loro.

Giuseppe Graceffa

Non perdete la seconda parte del prossimo racconto “Questione di corna” che sarà pubblicata sabato 12 settembre.

Ecco il calendario delle prossime pubblicazioni:

Sabato 12 settembre: seconda parte del racconto “Questione di corna“;

Sabato 19 settembre: terza (ed ultima) parte del racconto “Questione di corna“.

Non mancate all’appuntamento!!!

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