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Editoriali

27 Gennaio: una pagina del libro dell’Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria.

auschwitzMai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto”.

Così lo scrittore rumeno Elie Wiesel, sopravvissuto all’Olocausto e Premio Nobel per la pace 1986, ricorda nelle sue memorie uno dei tanti orrori vissuti nel lager di Auschwitz. Un inferno da cui fu liberato insieme a poche migliaia di superstiti, ridotti in condizioni scheletriche, dall’arrivo delle truppe sovietiche.

La più grande pazzia mai perpetuata al mondo, l’insano gesto che va oltre ogni pensiero che possa definirsi umano, quello dell’intento di Hitler e della Germania nazista. Il fine era risolvere la “questione ebraica”, grazie ad un folle piano ben congegnato e appoggiato dai nazisti del Terzo Reich, la “razza ariana”. Il piano prevedeva l’eliminazione di sei milioni di ebrei europei. Il tutto si consumò a partire dal 1933 con il con la segregazione degli giudaici in terribili campi in cui vennero ridotti, indipendentemente dal sesso e dall’età in spettri, schiavi, deturpati fisicamente e psicologicamente.

Nel 1941 ebbe inizio lo sterminio fisico per mezzo di eccidi di massa: è solo l’inizio della “Shoah” (sterminio del popolo ebraico). Una parola dal suono gradevole che nasconde un terribile misfatto, una parola che non deve e non può essere dimenticata, né dalle vecchie, né dalle attuali, né dalle future generazioni, una parola che racchiude il bestiale atto di uomini, che bestie non sono, ma che possono agire da tali.

Oggi, 27 gennaio, si ricorda l’orrore con il cosiddetto “giorno della memoria“, il giorno dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz nel 1945, grazie alle truppe sovietiche dell’Armata Rossa. Quello che fino al giorno prima era una “cittadella di morte“, in cui furono costruite apposite camere a gas e forni crematori. Al loro arrivo i prigionieri venivano spogliati di tutto e rivestiti con una casacca standard che si distingueva per un contrassegno colorato all’altezza del torace (identificativo della categoria del detenuto; agli ebrei era associata una stella gialla a sei punte) e per il numero di matricola (tatuato anche sul braccio sinistro).

Tutti i deportati ignoravano la loro destinazione e la sorte che li attendeva. Stremati dalla fame e dalle indicibili torture patite, molti preferirono andare incontro alla morte volontaria lanciandosi contro il filo spinato elettrificato, piuttosto che aspettare di essere avvelenati dal gas e bruciati nei forni crematori. Qui, in tre anni, furono messi a morte circa 12mila ebrei al giorno.

Solo l’avanzata dell’Armata rossa in Polonia, interruppe quell’orrore, di fronte alla quale il capo delle SS Himmler diede l’ordine di evacuare i prigionieri e distruggere qualsiasi traccia dei crimini commessi, dai forni crematori agli indumenti delle vittime ammassati nei magazzini. L’operazione non poté essere portata a termine e molte testimonianze di quell’inferno rimasero intatte.

Pochi i sopravvissuti liberati che si chiusero alle spalle l’enorme cancello con la “famosa“ dicitura ”Arbeit macht frei” (“il lavoro rende liberi“). Il fabbro che l’aveva realizzata pare che avesse appositamente saldato la “B” al contrario, in segno di protesta verso la reale funzione del luogo.

Sono passati 71 anni da allora, troppo pochi per cancellare qualcosa che non si può e non si deve cancellare. Un giorno questo in cui “non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare…Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre”.

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