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Familiari vittime di mafia: “Via D’Amelio, depistaggio prima e dopo la strage?”

Mentre a Caltanissetta è in corso il processo che vede imputati tre poliziotti che facevano parte del ‘Gruppo Falcone e Borsellino’ (Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei), coinvolti nella gestione del falso pentito Vincenzo Scarantino, diventano sempre più inquietanti i dubbi su quanti e chi siano i soggetti realmente coinvolti nel depistare le indagini sulla strage di Via D’Amelio”.

Ad affermarlo è Giuseppe Ciminnisi, coordinatore nazionale dei familiari di vittime innocenti di mafia, dell’associazione ‘I Cittadini contro le mafie e la corruzione’.

Secondo l’accusa – sostenuta dal pm Stefano Luciani – La Barbera (allora a capo del gruppo) e i poliziotti oggi imputati, avrebbero costretto Scarantino a rendere false dichiarazioni. Per il pm ci sarebbero elementi che dimostrerebbero convergenze nella ideazione della strage di via D’Amelio tra i vertici e gli ambienti riferibili a Cosa nostra e ambienti esterni all’organizzazione mafiosa. Secondo Luciani, per comprendere il depistaggio è necessario il confronto tra le dichiarazioni rese da Scarantino e quelle successivamente rese da Gaspare Spatuzza, che sarebbero pressoché sovrapponibili, salvo la presenza di un individuo all’interno del garage di via Villasevaglios non conosciuto da Gaspare Spatuzza e dallo stesso individuato come possibile soggetto esterno all’associazione mafiosa, del quale Scarantino non ha mai parlato. Se Scarantino, così come emerso processualmente, era un ‘picciotto’ della Guadagna che nulla poteva sapere di importanti fatti di mafia come la strage di Via D’Amelio, chi lo mise nelle condizioni di rendere dichiarazioni sovrapponibili a quelle di un vero pentito di mafia come Spatuzza? Potevano i soli poliziotti oggi a processo – si chiede Ciminnisi – avere ‘imbeccato’ il falso pentito? Una vicenda per certi versi analoga a quella di altri discussi pentiti che precedentemente alle stragi nelle quali morirono i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, hanno reso dichiarazioni in merito a fatti che non potevano essere di loro conoscenza, come nel caso di Vincenzo Calcara”.

“Nel corso di un recente processo per diffamazione tenutosi ad Agrigento che vedeva l’ex collaborante parte offesa, essendo stato definito ‘falso pentito’ – terminato con l’assoluzione dell’imputato – a gettare il sasso nello stagno è stata la testimonianza del giudice Massimo Russo. Russo, che ben conosce le vicende di mafia del trapanese, nel ribadire che Calcara non fu mai un appartenente a ‘Cosa nostra’, nel corso della sua deposizione aggiunge che ‘però diceva delle cose, come dire, intriganti. Per esempio parla dell’attentato a Borsellino, anticipando di 8 mesi quello che sarebbe accaduto. A un certo punto fa riferimento al notaio Albano. Un soggetto che, per come abbiamo ricostruito successivamente, era certamente fuori dalle dimensioni relazionali del Calcara. Nel ‘93/94 si pente Brusca e ci racconta del notaio Albano che, credo su richiesta di Andreotti, portò il piatto d’argento o a Nino o a Ignazio Salvo, in occasione del matrimonio della figlia. E questa circostanza certo non mi sfuggì: ma come faceva Calcara a parlare del notaio Albano, come faceva a parlare del notaio Albano due anni prima?’ Due pentiti – Scarantino e Calcara – che parlano di cose al di fuori della loro portata, utili però a indirizzare indagini su false piste, prima e dopo le stragi. Cui prodest? Un depistaggio mai interrotto – continua Ciminnisi – facendo riferimento a quanto affermato dal pm Luciani rispetto le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Maurizio Avola. A gettare oscure ombre sull’operato di alcuni ‘pentiti’, il fatto che nonostante non siano stati gestiti dagli stessi appartenenti alle forze dell’ordine, le loro storie presentano inquietanti analogie. Non uno ‘scassapagliaro’ – parafrasando quanto affermato dal pm Luciani riferito a Scarantino – ma forse di più, considerato il numero dei falsi pentiti dei primi anni ’90, di modestissimo spessore criminale, trasformati in ‘uomini d’onore’ a conoscenza dei più reconditi fatti di ‘Cosa nostra’”.

“Forse – conclude Giuseppe Ciminnisi – come affermato dal giudice Russo nel corso del processo ad Agrigento, bisognerebbe ripartire da prima delle stragi; quantomeno da quel 1991 quando ‘a Castelvetrano si tengono le riunioni che metteranno in fibrillazione il nostro paese nel ’92 e ’93. Bisognerebbe forse ricominciare da lì per comprendere. Cominciare dalle notizie sull’attentato a Borsellino…’“.