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Nuovi supporti alle teorie di Sciascia su “La Scomparsa di Majorana”

C’è un limite etico – morale oltre il quale è lecito per uno scienziato sottrarsi al dovere della ricerca; se questo è il motivo della scomparsa di Ettore Majorana, brillante scienziato, pioniere dei segreti dell’atomo, quanto il suo eventuale sacrificio è stato inutile? Quanto è ancora attuale il rischio che la storia si possa ripetere dopo l’orrore di Hiroshima e Nagasaki? Nelle pagine di un diario di viaggio nuovi importanti tasselli su uno dei più intriganti misteri del ventesimo secolo raccontato dallo scrittore racalmutese. Un percorso per capire se esiste ancora una strada per la pace.

di Lillo Alaimo Di Loro

La sera del 25 marzo 1938 Ettore Majorana, trentaduenne, si imbarca a Napoli, diretto a Palermo. Dal 27 si perde ogni traccia della sua presenza e da allora viene dichiarato scomparso.

Su “La scomparsa di Majorana”, il saggio pubblicato per la prima volta in forma completa nel 1975, che esplora le ragioni, il contesto storico e le ipotesi sulla scomparsa del celebre geniale scienziato siciliano, Leonardo Sciascia riporta una frase che ancora oggi esprime la profonda attualità del significato:

–          la sua storia (n.d.r. quella di Majorana) raccontata vuole esprimere il malessere esistenziale, l’insicurezza, l’ansia profonda, la perduta fede in un mondo ancora comprensibile e governabile con categorie umane.  

Essa adempie ad una funzione della letteratura, quella di essere una forza liberatrice.

Per Leonardo Sciascia tra i motivi che portarono il geniale fisico di via Panisperna alla volontaria scomparsa vi è la paura di ciò che la sua capacità di speculazione scientifica avrebbero potuto scoprire. La scomparsa/fuga diventa simbolo del diniego di una scienza che avrebbe portato l’umanità sull’orlo della distruzione. Un gesto che quindi assume il valore di protesta, del rifiuto di asservirsi, forse assoggettarsi al volere delle potenze mondiali del tempo che proprio in quel periodo erano alla ricerca di invenzioni dal potere devastante, l’atomica, che se applicate nella pratica bellica avrebbero portato dolore e distruzione. Il giudizio della storia in questo è stato spietato. La cronaca non tarda a riferirci che:

“Il mattino del 6 agosto 1945 alle 8.16, l’Aeronautica militare statunitense lanciò la bomba atomica “Little Boy” sulla città giapponese di Hiroshima. Tre giorni dopo dal lancio dell’ordigno “Fat Man” su Nagasaki. Il numero di vittime dirette è stimato da 100.000 a 200.000[1], quasi esclusivamente civili. Per la gravità dei danni diretti ed indiretti causati dagli ordigni, e per il fatto che si è trattato del primo e unico utilizzo in guerra di tali armi, i due attacchi atomici vengono considerati fra gli episodi bellici più significativi dell’intera storia dell’umanità”.

Ma ciò che è ancora più grave e che a distanza di 77 anni dal tragico evento di Hiroshima e Nagasaki il pericolo di un conflitto nucleare incombe di nuovo sull’umanità. E non certo per volontà dei popoli, che bene conoscono la sofferenza della guerra e della distruzione, quanto piuttosto delle elite che governano le nazioni.

Anni fa un mio amico, appassionato alle letture “sciasciane” mi parlò di un vecchio libro di racconti: “Penna Vagabonda” pubblicato nel 1953, in cui l’autore, un giornalista di nome Virgilio Lilli, racconta dei luoghi visitati subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, in qualità di inviato speciale, tra questi i fatti riportati dall’autore il racconto di una suora ospite di un convento di Hiroshima, Marie Xavier (il cognome italiano era Saccardo Rasi). C’è una frase che Lilli riporta testualmente nel libro: “Ella mi disse che la bomba, prima di scoppiare, stette venti minuti in cielo e un padre gesuita, scienziato le spiegò poi che lo scoppio fu prodotto dall’azione dei raggi solari. (Lo stesso gesuita le disse che solo un ventesimo della bomba scoppiò; se tutti i ventesimi fossero entrati in azione, non una città intorno a Hiroshima sarebbe rimasta in piedi per un raggio di cinquanta chilometri) “.

Riporto da “penna vagabonda”: “Alle ore sette e quaranta Marie Xavier levo gli occhi al cielo, vide qualcosa galleggiarvi, un “oggetto” sostenuto da tre paracadute, pensò che anche quel giorno gli americani avessero gettato manifestini, si meravigliò che non fosse suonato l’allarme, riprese la sua lettura e la sua meditazione. Alle otto meno cinque il suo libro di preghiere si trasformò in una fiamma gialla nelle sue mani, la fiamma volò in alto come succhiata, le sue mani si insanguinarono. Allo stesso momento credette d’essere divenuta cieca per una portentosa luce verdastra che “scoppiò” attorno. (Ecco l’espressione: a Hiroshima non scoppiò una bomba, scoppiò una luce; la bomba fu uno scoppio di luce).  Marie Xavier non poté mai spiegare bene come fosse quella luce, diceva semplicemente che non esistono parole per descriverla: dapprima verdognola, poi giallognola, poi rossa, “qualcosa come il lampo al magnesio dei fotografi moltiplicato per miliardi e miliardi di volte”. Il racconto continua con la descrizione del contesto terribile, infernale che in pochi minuti si sviluppa nell’area. Il convento viene in pochi istanti svuotato di tutto. Il mobilio risucchiato e bruciato in volo come il libro che Marie aveva tra le mani. Solo allora realizzò che quell’oggetto che galleggiava nell’aria era una potentissima bomba. La vicina scuola, a circa duecento metri in una “frazione di minuti” era diventata un “enorme monte di bambini morti”. Cinquecento bambini morti in una frazione di secondo, bruciati “neri come castagne troppo arrostite”. Il cielo che si oscura, come fosse improvvisamente scesa la notte e una pesante nuvola di polvere bruna aveva coperto la città.  Non si udiva nessun rumore. ….   Nel polverone e nel buio esse intravedevano centinaia di persone giacere a terra combuste, mentre altre centinaia venivano via via “arrostendosi” come pezzi di carne. Una folla di gente dai vestiti a brandelli a dai capelli sconvolti e inceneriti si avviava al fiume in silenzio, scarlatta di sangue, senza emettere un gemito. Maria Xavier dice di non avere udito un solo lamento da parte dei giapponesi feriti o moribondi. Qualcuno d’essi, spellato in tutto il corpo “come un’arancia sbucciata”, si limitava a dire sottovoce e inchinandosi cerimoniosamente: “Tasukete Kure”, “per cortesia, aiuto”.

Il mio amico, quando ci incontrammo anni fa sosteneva la possibilità che questo misterioso padre gesuita scienziato, fosse il celebre fisico siciliano Ettore Maiorana. Secondo il suo ragionamento infatti nella parte finale del celebre saggio di Leonardo Sciascia “La scomparsa di Maiorana”, lo scrittore racalmutese, come nel suo stile, senza la pretesa di offrire la soluzione al mistero lascia intuire la concreta possibilità che lo scienziato siciliano si sia ritirato a vita monastica. Due sono le tesi che sosterrebbero l’ipotesi che quel gesuita fosse il celebre fisico siciliano. La prima che i fatti si riferiscono a prima del 1953, data sino alla quale la tecnologia della bomba era ancora segretata ed è evidente che il gesuita in questione invece fosse “persona informata dei fatti”, se non addirittura “un addetto ai lavori”, visto che conosceva i dettagli tecnici in modo puntuale. Ed inoltre il misterioso gesuita doveva essere molto preoccupato per l’immane tragedia di cui ne conosceva la natura, tanto da contattare la suora per avere notizie di prima mano sulla tragedia.

Comunque siano andati i fatti, ciò che è evidente è che il sacrificio di Majorana o semplicemente la sua scelta di scomparire dalla scena è stato vano, come il tentativo di ostacolare lo studio sulle sue geniali intuizioni di fisica della natura dell’atomo.  Ma ciò che è peggio e che malgrado i suoi sforzi la Storia non riesce ancora ad essere, per l’umanità, maestra di vita. Tanto che a distanza di settantasette anni, l’attenzione delle nazioni è tutta rivolta verso un conflitto, quello russo ucraino, che minaccia una escalation dagli esiti terrificanti del conflitto nucleare. “Quando due elefanti combattono è sempre l’erba a rimanere schiacciata”, recita un antico proverbio africano. È evidente che “l’erba” sono i popoli della terra che conoscono il dolore e la sofferenza perché la vivono ogni giorno attraverso le privazioni, la fame e la violenza in più di 350 conflitti oggi in corso nel mondo. Di cui almeno 20 guerre ad alta intensità. Non vi è dubbio che tutti i popoli vogliano la pace. Non hanno alcun interesse a volere la guerra che invece gonfia le tasche di chi produce e fornisce le armi, i vettovagliamenti e dopo la tregua gestisce la ricostruzione.

Dovere dell’uomo libero è quello di cercare nei fatti la verità delle cose, per difendere l’identità e l’integrità dei popoli della pace. La pace è un percorso che va costruito giorno per giorno attraverso il dialogo e la lealtà. Le diplomazie dei giusti sono le uniche armi ammesse nella risoluzione dei conflitti tra le nazioni, comunque questi conflitti siano sorti. Questa la missione delle religioni dell’amore, come il cristianesimo, nonché il principio da cui alle fine del secondo conflitto mondiale è nata anche l’Unione Europea.

Cito me stesso nel frammento di una poesia, dedicata alla sempre irrisolta questione palestinese, per rappresentare quanto oggi la missione di pace dell’Europa sia fallita e con esso l’attualizzazione del pensiero cristiano a cui si ispira.

Le nozze di Cana

….

a cosa è servito/ l’avere tramutato l’acqua in vino/se ora il vino è diventato sangue/e l’orrore ha trasformato in tragedia la/la festa di Cana.

……….

Giova ricordare che l’UE, unione dei governi e della tecnocrazia, lungi dall’essere Europa dei popoli, con la posizione assunta rispetto alla questione Russia-Ucraina, prendendo parte attiva a favore di una delle due parti in conflitto ha abbondantemente tradito la sua missione fondativa che è la pace. Ciò è avvenuto per altro con l’ingiustificabile e aberrante appoggio dell’Italia che meglio di ogni popolo europeo si distingue per l’alto valore etico della sua costituzione, che senza equivoci ribadisce la vocazione pacifista della repubblica, quando all’Art. 11 riporta: l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; …

La strada è segnata, bisogna percorrerla con coraggio e determinazione, per non dovere mai più  dire : “ Tasukete Kure” .

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