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Operazione antimafia “Xydi”: boss al 41bis veicolavano messaggi all’esterno

Finisce agli arresti anche una avvocatessa canicattinese nell’ambito del blitz denominato “Xydi” scattato alle prime ore di stamani e che ha portato al fermo di 23 persone.

I fermi, riguardano soggetti ritenuti a vario titolo responsabili di associazione di tipo mafioso (Cosa Nostra e Stidda), concorso esterno in associazione mafiosa, favoreggiamento personale, tentata estorsione ed altri reati aggravati, poiché commessi al fine di agevolare le attività delle associazioni mafiose indagate.

Secondo gli investigatori l’avvocatessa avrebbe messo a disposizione dei clan mafiosi il proprio ufficio, pensando di essere al sicuro da intercettazioni. Per l’accusa, i capi dei mandamenti di Canicattì, della famiglia di Ravanusa, Favara e Licata, un ex fedelissimo del boss Bernardo Provenzano di Villabate e il nuovo capo della Stidda si sarebbero ritrovati nell’ufficio, per discutere di affari e vicende legate a Cosa nostra. Un ruolo, quella dell’avvocatessa canicattinese, che – sempre secondo l’accusa – sarebbe stata anche di consigliera alle attività dei clan.

L’inchiesta coinvolgerebbe anche un agente della polizia Penitenziaria e un assistente capo della polizia di Stato, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, accesso abusivo al sistema informatico e rivelazione di segreti d’ufficio.

In particolare, dall’indagine sarebbe emerso che boss reclusi al regime del 41bis avrebbero fatto veicolare messaggi all’esterno.

Inoltre, sono stati ricostruiti i qualificati rapporti tra i rappresentanti del mandamento di Canicattì con esponenti di altre omologhe strutture delle province di Agrigento, Trapani, Catania e Palermo, sintomatici della perdurante unitarietà dell’organizzazione.

La particolare ampiezza dell’azione investigativa ha cristallizzato, inoltre, la perdurante posizione apicale, nell’ambito di cosa nostra, di Matteo Messina Denaro che, punto di riferimento decisionale dell’organizzazione, ha continuato a impartire direttive sugli affari illeciti più rilevanti gestiti dal sodalizio nella provincia di Trapani ed in altri luoghi della Sicilia.
Sono stati colpiti, tra gli altri, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Falsone rispettivamente al vertice della provincia mafiosa di Trapani e della provincia mafiosa di Agrigento, gli esponenti di vertice di diverse articolazioni mafiose di cosa nostra[4] (mandamento di Canicattì e famiglia di Favara) nonché capi, promotori e organizzatori della rinnovata associazione mafiosa stidda.

 

 

In particolare, dall’indagine è emerso che un agente della penitenziaria in servizio nel carcere di Agrigento, durante un colloquio telefonico tra Falsone, e l’avvocata, e avrebbe consentito alla legale di portare in carcere lo smartphone e di usarlo rispondendo alle telefonate ricevute nel corso dell’incontro con Falsone. L’avvocatessa di Canicattì sarebbe diventata “una messaggera”, dicono i pm.

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