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Mafia agrigentina, relazione DIA: la “stidda” si espande al Nord Italia

Il contesto criminale della provincia di Agrigento, contraddistinto dalla costante e invasiva presenza di Cosa nostra, dal dopoguerra ad oggi ha subìto una continua evoluzione nel perseguimento degli affari illeciti, spostandosi dall’originario ambito economico agro-pastorale verso settori ben più remunerativi, quali il traffico internazionale degli stupefacenti ed il controllo di attività economiche con riguardo, in particolare, all’edilizia e agli appalti pubblici“.

Inizia così la “Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e i risultati conseguiti dalla DIA” nel secondo semestre del 2019, relative alla provincia di Agrigento.

Dai dati e dalle considerazioni emerse, si registra la sempre più presente volontà della mafia agrigentina di interagire con consorterie mafiose di altre province siciliane – in particolare con quelle palermitane delle quali replica la struttura in mandamenti e famiglie – e con realtà criminali di altre Regioni.

In alcuni territori della provincia, un ruolo di rilievo viene ricoperto dalla “stidda”. Al riguardo, nell’ultimo semestre 2019, articolate indagini hanno colpito un’organizzazione criminale di matrice stiddara, del tutto indipendente da Cosa nostra, che aveva fissato il “quartier generale” nel nord Italia, più precisamente nelle città di Brescia, Torino e Milano.

Il sodalizio, del quale facevano parte, tra gli altri, anche soggetti originari della provincia di Agrigento, ha permesso a centinaia di imprenditori di evadere il fisco per diverse decine di milioni di euro, cedendo crediti fiscali inesistenti e riciclando i profitti. Benché proiettata verso gli illeciti finanziari, la consorteria agiva secondo le vecchie regole di stretta e collaudata osservanza mafiosa.

Gli associati, infatti, “…si avvalevano della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo….che si sostanziava…nell’osservanza delle gerarchie e delle rigorose regole interne di rispetto ed obbedienza alle direttive dei vertici, con previsione di sanzioni in caso di inosservanza…”.

Insieme alla “stidda”, Cosa nostra agrigentina conferma comunque il proprio radicamento sul territorio e la ricerca di alleanze presso i sodalizi delle vicine province.

In particolare, essa continua ad essere strutturata in 7 mandamenti (Agrigento, Burgio, del Belice, Santa Elisabetta, Cianciana, Canicattì e Palma di Montechiaro) suddivisi a loro volta in 42 famiglie.

Giova precisare che le ricomposizioni di famiglie e di mandamenti sono anche influenzate dalle scarcerazioni degli affiliati che, tornati in libertà, hanno interesse a riconquistare posizioni sospese e sono pertanto in grado di creare significative frizioni sia nel territorio di appartenenza che in quelli vicini. Recenti attività di indagine hanno inoltre accertato frequenti contatti tra esponenti mafiosi agrigentini e componenti di famiglie catanesi, nissene e trapanesi, specie tra Cosa nostra agrigentina e soggetti affiliati alla famiglia mafiosa di Castelvetrano(TP).

Anche in questa provincia, il business mafioso per antonomasia è rappresentato dal fenomeno estorsivo: con tale pratica illecita, conseguita – molto spesso – attraverso atti intimidatori, le consorterie si assicurano liquidità e controllo del territorio. Non sono poi mancanti, nel semestre, danneggiamenti seguiti da incendi, per lo più ai danni di imprese.

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